Articoli di Giovanni Papini

1955


Cinquantasei anni di vera amicizia
Pubblicato in: La Fiera letteraria, anno X, fasc. 27, p. 5
Data: 3 luglio 1955


pag.5



   Caro Giuliano, vorrebbero che io scrivessi, a distanza di quarantaquattro anni, una appendice al famoso capitolo che ti dedicai nell'Uomo Finito. Non posso e anche se potessi non vorrei. L'amicizia ha il suo pudore che è più delicato di ogni altro perchè riguarda l'anima e basta. Nel 1911, quando scrissi il capitolo intitolato Giuliano, poteva illudermi che il mio libro fosse una specie di romanzo di avventure intellettuali e che tu fossi un personaggio immaginario, almeno per i lettori. Ora le cose sono profondamente e radicalmente cambiate. Tutti sanno chi siamo e cosa abbiamo fatto, poco o molto che sia.
   Siamo tutt'e due vecchi, tu vecchio incredibilmente giovane e operoso ed io un vecchio sepolto innanzi tempo dalla crudele e quasi totale decadenza della carne. Eppure, a dispetto di questa opposizione e diversità di destini, riusciamo a comunicare tra di noi e a volerci sempre bene. Ma questo è affar nostro e gli estranei, anche se amici, non possono sapere quello che noi soli sappiamo.
   Un'amicizia nata nel 1899, cioè cinquantasei anni fa, che ha resistito a separazioni e a tempeste, a rivoluzioni di pensiero e a guerre di idee, un'amicizia tra due uomini diversi tra loro per origini e natura, per gusti ed istinti, per opinioni e per fedi, per sentimenti del cuore e per abitudini della mente, tra due uomini che a momenti sembrano il contrario l'uno dell'altro, ha qualcosa di misterioso e di miracoloso ed io stesso che l'ho vissuta in pieno non saprei farne la storia intera e sicura.
   Posso fare solamente una confessione: non ti vedo e non ti parlo dal 1939 e sono ormai certo che non c'incontreremo mai più. Capisco perfettamente perchè tu non abbia nessuna voglia di tornare in Italia ma tu devi capire e perdonarmi se ti dico che uno dei dolori che più mi tormentano in questa ultima vigilia della vita è proprio questo, cioè la certezza che non potrò più ascoltare la tua voce nè stringere la tua mano. E' una delle tante debolezze di un vegliardo infermo e percosso dalla sventura e tu vorrai compatirlo. Ma tutte le terre e tutti i mari che si frappongono fra di noi non c'impediscono di conversare liberamente e di sentirci vicini l'uno all'altro come quando, mezzo secolo fa, si andava rapidi e soli per le strade della campagna fiorentina, parlando con allegra concitazione delle nostre scoperte e dei nostri sogni.

      25 febbraio 1955


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